Fernando Vianello, "Teoria e pratica del modello Emilia"*

Economia e Società Regionale
n. 77-78, 2002

Chi entra nello studio di Sebastiano Brusco in facoltà - ora che è stato fatto un po' di ordine e una mano pietosa ha deposto qualche fiore - è colpito da una grande fotografia che da anni giaceva lì, semisommersa dai libri e dalle carte. In essa si vede l'allora governatore dell'Arkansas, Bill Clinton, che prende appunti su un blocco appoggiato sulle ginocchia, altre due persone che, come lui, ascoltano e Sebastiano che racconta. Il luogo dell'incontro è Modena. Il tema, non si può sbagliare, i distretti industriali.
Molti anni prima, nel 1968, Sebastiano era arrivato a Modena (la facoltà nacque in quell'anno), dopo un lungo periodo trascorso a Cambridge, e aveva cominciato a guardarsi intorno. Per uno studioso di economia industriale la città, con il suo ricco tessuto produttivo, il suo articolato sistema di governo delle relazioni sociali e la sua stretta integrazione fra industria e agricoltura, era una miniera a cielo aperto. Ma per vedere bisogna saper guardare. In questo Sebastiano era aiutato dal fatto di provenire da una realtà sociale completamente diversa. "Perché questo non succede a Sassari?", mi ha chiesto infinite volte, mentre io mi smarrivo fra Marx e Sraffa. Questa domanda era il segreto della distanza critica che gli consentiva di vedere l'Emilia - e che attraverso lo studio dell'Emilia gli avrebbe consentito, negli anni successivi, di raggiungere importanti risultati anche in campo teorico e di contribuire a dare vita a un intero filone di studi.
Il processo non fu, tuttavia, lineare. Alcune strade, che parevano promettenti, dovettero essere abbandonate, altre portarono in direzioni diverse da quelle inizialmente previste. Le lavoranti a domicilio del quartiere "La Madonnina" gli fecero capire che quel modo di lavorare, accanto a evidenti svantaggi, presentava anche alcuni vantaggi, particolarmente se qualcun altro in famiglia aveva un lavoro regolare; le delegate di fabbrica gli spiegarono che "in certi periodo della loro vita l'orario completo non avrebbero potuto farlo". Che in una spiegazione "dal lato dell'offerta" ci fosse qualche elemento di verità di cui tener conto era per lui (e per quelli cui apriva il suo cuore) fonte di sorpresa, se non di scandalo. Ma forniva anche uno stimolo alla riflessione. Dovette concluderne, come scriverà più tardi, che "in situazioni di piena occupazione forse accadono cose diverse da ciò che accade in Sardegna". Così, accumulava pietre e calcina per la casa che avrebbe costruito.
Analogamente andarono le cose nello studio delle piccole imprese. Che per Sebastiano iniziò da un'indagine sul settore metalmeccanico bolognese, promossa nel 1971 dalla Fiom di Claudio Sabattini e Francesco Garibaldo. L'ipotesi di partenza era quella della "subordinazione" della piccola impresa alla grande. La piccola impresa, tipicamente, non produceva per il mercato, ma per la grande impresa, della quale costituiva spesso un "reparto staccato", che lavorava a costi molto inferiori grazie alla sua "capacità di non pagare", ossia di imporre ai lavoratori paghe e condizioni di lavoro impensabili nella grande impresa. Piccola impresa, grande sfruttamento s'intitolava, significativamente, un volumetto che dava conto di una ricerca condotta a Verona (e qui mi piace ricordare un altro amico scomparso, Federico Bozzini, che di quella ricerca fu l'animatore). Fra la Mondatori e le imprese che lavoravano per la Mondatori le differenze di paga, a parità di mansioni, potevano superare il 50 per cento.
Senza in alcun modo negare questo, Sebastiano cominciò a vedere che c'era anche dell'altro. Parecchio altro. Molte piccole imprese lavoravano per il mercato. Molte di quelle che lavoravano per altre imprese non avevano necessariamente un solo committente, ma passavano dall'uno all'altro secondo il mutare delle esigenze (ciò che garantiva loro una sostanziale assenza di subordinazione, e conferiva all'intera struttura produttiva una straordinaria flessibilità). Paghe e condizioni di lavoro erano certamente disastrose, ma non era questa l'unica fonte della competitività delle piccole imprese. I macchinari impiegati, in particolare, erano spesso gli stessi nelle grandi e nelle piccole imprese.
Quest'ultimo aspetto poneva un rilevante problema teorico. Perché ci avevano insegnato che il mondo è governato dalle economie di scala: maggiore è la scala produttiva, minori i costi. Certi modi di produrre divengono convenienti solo al di sopra di un certo livello di produzione. Insomma. se si producono venti automobili all'anno, non è conveniente istallare una catena di montaggio. Ovvio, no? Ma se la maggiore scala produttiva è ottenuta istallando cento torni uno vicino all'altro, le cose prendono un aspetto diverso. Ciascuno di quei torni sarebbe altrettanto efficiente se venisse istallato in una cantina. Ovvio anche questo. Ma la ragione per cui alcune cose paiono ovvie è che qualcuno le ha viste e ce le ha spiegate.
Le economie di scala rappresentano un pezzo decisivo della visione di Marx. E con Marx Sebastiano si trovò ben presto costretto a fare i conti. Dove stava, per Marx, la fonte delle economie di scala? Io, che ero considerato un esperto di Marx, non l'avevo mai capito. Stava, lui ci spiegò, nella forza motrice. Un motore centrale che mette in movimento cento torni, o cento telai: sono queste le fabbriche di Marx, con i loro bracci mostruosi che trasmettono il movimento. Ma se basta inserire una spina per avere la corrente elettrica necessaria, la tecnologia è altrettanto avanzata se i cento torni, o telai, stanno tutti insieme che se stanno in posti diversi. Che poi tecnologia avanzata e bassi salari possano convivere felicemente è un risultato difficilmente spiegabile alla luce della teoria economica dominante. Era questo un punto che Sebastiano amava ricordare come prova del fatto che la sua giovanile frequentazione di Piero Sraffa e dei dibattiti sulla teoria del capitale non erano passati per lui come l'acqua sui sassi.
Nello studio delle piccole imprese (ma anche dell'agricoltura "ricca", e dei nessi fra attività agricola e attività industriale) sta il nucleo originario delle riflessioni che hanno condotto Sebastiano agli aspetti più noti della sua produzione scientifica: lo studio dei distretti industriali, dove ha trovato significativi punti d'incontro con un altro studioso, Giacomo Becattini, che oggi come me piange la perdita di un amico prezioso; e quello delle interazioni fra struttura produttiva, mercato del lavoro e forme della mediazione e del controllo sociale. Eloquente appare qui il titolo di un saggio che ha esercitato una forte influenza e che gli è valso i primi estesi riconoscimenti internazionali: Il "Modello Emilia": disintegrazione produttiva e integrazione sociale.
Ho parlato più delle cose lontane che di quelle vicine. Spero che non mi venga rimproverato. Questo è il momento della commozione e del ricordo. Per un apprezzamento completo ed equilibrato del suo lavoro scientifico ci sarà tempo in seguito.
Se il lettore si è incuriosito, vada a vedere, per prima cosa, le note di presentazione ai saggi raccolti nel volume Piccole imprese e distretti industriali (Rosenberg & Sellier, 1989). In tali note, cui ho liberamente attinto, l'autore non fa quel che ogni scrittore accademico farebbe: sistemare retrospettivamente la materia, colmare (o nascondere) le lacune, integrare e aggiornare i riferimenti alla letteratura. Fa una cosa diversa e del tutto inconsueta. Racconta come gli è venuta l'idea, o come gli si è presentata l'occasione, di occuparsi di un argomento; rievoca le discussioni con i colleghi e i rapporti con il sindacato; parla degli allievi che hanno collaborato con lui: tantissimi, perché era uno straordinario plasmatore di intelligenze e suscitatore di energie. Egli giustifica così questo modo di procedere: "Mi sono convinto che alla mia età - e in tempi in cui la distinzione fra pubblico e privato si fa, finalmente, meno netta e marcata - potevo consentirmi di raccontare il dove, il come, il perché e il quando di ogni pezzo, evitando di tenere un discorso rigorosamente impersonale e analitico. E mi sono accorto, nel farlo, che in questo violare le regole vi erano talvolta dei pericoli, ma anche, in più di un caso, occasioni di riflessioni e di sorriso". Dietro l'ultima parola chi lo ha conosciuto vedrà il suo sorriso, che era un sorriso speciale, appena accennato, che indugiava a lungo a mezz'aria, come trattenuto da un improvviso ritegno, o da un pensiero malinconico.


* Questo testo riprende, con alcune modifiche, l'articolo di F. Vianello in ricordo di Sebastiano Brusco pubblicato da Il manifesto il 31 gennaio 2002.

[Ultimo aggiornamento: 10/09/2012 10:23:37]