Alberto Cottica, "No free Lunch"

in corso di stampa, 2004

Introduzione
Nomisma, fortemente incoraggiata dall’associazione ambientalista Italia Nostra, costituì la sezione di ricerca Ambiente e Beni Culturali nel 1989, chiamando a dirigerla Sebastiano Brusco. Questa iniziativa segnò l’avvio di un nuovo tratto del percorso intellettuale e professionale di Sebastiano, che lo portò ad avvicinarsi ad un ramo della disciplina allora relativamente giovane e in forte espansione (erano gli anni del grande successo mediatico di David Pearce e del suo Progetto per un’economia verde). Nel 1991, la sezione si separò dalla società madre per divenire una società di ricerca indipendente con il nome di Eco&Eco – Economia e Ecologia. Nomisma ne era un socio di minoranza: i soci di controllo erano Bastiano stesso e due giovani ricercatori della sezione, Paolo Bertossi e Anna Natali. Bastiano era naturalmente il direttore scientifico della società, e lo rimase fino al 2000. Io avevo ventisei anni ed ero l’unico collaboratore stipendiato di Eco&Eco, che fu il mio primo lavoro “vero”: entrai in società, alla pari con gli altri tre, nel 1992. Scrivo questo per giustificare l’uso della prima persona plurale nel resto del paper, che Bastiano diceva di non approvare in uno scritto accademico (ma che almeno in un’occasione usò anche lui): come molte delle sue avventure intellettuali, anche quella di Eco seppe creare una forte identità collettiva che è rimasta con me anche se, ormai da qualche anno, mi occupo di altro.
Nei primi anni Bastiano e il suo gruppo affrontarono i temi ambientali da una prospettiva in cui prevalevano gli strumenti di analisi dell’economista del territorio, cosa molto naturale dato il suo background scientifico. A partire dal 1991, però, i ricercatori di Eco&Eco cominciarono a specializzarsi e a dividersi in due gruppi: uno proseguiva l’analisi territoriale, affinandone gli strumenti; l’altro iniziò ad occuparsi di un oggetto che chiamavamo Economia Industriale dell’Ambiente. I gruppi erano diversi anche per committenza: il secondo gruppo fu istituito per partecipare ad un progetto pluriennale che si chiamava ERIC (Environment, Regulation, Innovation, Competition) di cui facevano parte diverse università europee di assoluto prestigio, dal centro di ricerca sull’ambiente dell’Ecole des Mines alla Science Policy Research Unit del Sussex all’INSEAD. Il livello accademicamente molto alto della partnership rendeva necessario che Bastiano, l’unico di noi ad essere noto a livello internazionale, si occupasse molto da vicino delle attività di questo gruppo: l’identità precisa del committente, che all’interno della commissione europea non era la direzione generale XI (ambiente) ma la XII (ricerca scientifica e innovazione tecnologica), ne determinò un’attenzione alla tecnologia insolitamente alta. Erano infatti anni in cui l’economia ambientale si identificava soprattutto con la teoria della politica del “fisco verde”, cioè della correzione delle esternalità con ecotasse ed ecosussidi; naturalmente, sul terreno proposto dalla DG XII un economista industriale come Bastiano si sentiva molto più a suo agio. Io facevo parte di questo secondo gruppo, e questo paper si propone di riassumere le riflessioni più interessanti che nacquero in quel contesto.
L’approccio “ibrido” tra economia dell’ambiente ed economia industriale durò molto poco. La prima riunione del gruppo di lavoro si tenne a fine 1991 a Parigi. Già alla fine del 1992, dopo avere fatto un serio tentativo per sondare lo stato dell’arte della disciplina (io fui anche spedito a Londra a frequentare il master in “Economia dell’ambiente e delle risorse naturali” tenuto a UCL da David Pearce, consulente del governo britannico e della banca mondiale e una delle superstar accademiche dell’epoca), avevamo convenuto che l’economia dell’ambiente non esiste. Esiste l’ambiente, come campo di indagine applicata: come spesso accade, la ricerca applicata sull’ambiente può portare a innovazioni teoriche, ma non esiste una teoria dell’ambiente. Il bagaglio teorico usato per fare ricerca su problemi ambientali usava pezzi di teoria fiscale (per internalizzare le esternalità ambientali), pezzi di teoria del controllo ottimo (per calcolare il tasso ottimale di sfruttamento delle risorse naturali), e molti altri pezzi ancora. Il problema postoci dalla Commissione riguardava la possibilità di risolvere i problemi ambientali integrandoli nelle strategie di innovazione tecnologica delle imprese. Dal punto di vista teorico, ci dicevamo, non era affatto rilevante, che la cosa da integrare nelle strategie di innovazione fosse l’ambiente. Poteva essere qualunque altro bene pubblico, la bellezza, per esempio, o l’uguaglianza. Ciò che ci serviva era una comprensione dei meccanismi con i quali le imprese innovano; e questo problema si affrontava con strumenti di economia dell’innovazione.
Questa operazione di rigore scientifico ebbe l’effetto di dissipare un bel po’ di nebbia ideologica. In quegli anni, infatti, sembrava che la preoccupazione per le sorti del pianeta fosse finalmente diventata comune ai più importanti decisori. Erano gli anni di Rio 92, del Greening of the industry, del Business Forum for Sustainable Development. I media sembravano annunciare una nuova epoca di sviluppo sostenibile e “dolce”. Questo punto di vista non sarebbe stato imposto da lotte politiche e soggetti forti. La rilettura dei rapporti di ricerca racconta però una storia radicalmente diversa, e di fatto attacca frontalmente alcune opinioni che, allora, venivano ripetute da diversi esperti e amplificate dai media. Il resto del saggio è la storia della nostra disillusione: della vulgata anni 90 che voleva coniugare sviluppo e ambiente, ben poco sopravvisse all’analisi. L’appendice contiene gli abstract degli studi a cui lavorammo in quegli anni.

“Le imprese hanno ormai capito che tutelare l’ambiente è nel loro interesse, e si sono trasformate in alleati del movimento ambientalista”
Nell’ambito di ERIC studiammo il settore dei servizi di smaltimento dei rifiuti. Le imprese del settore collaboravano volentieri con la Commissione Europea e con i governi nazionali nell’elaborare nuove normative, e quasi sempre cercavano di ottenere per standard di compatibilità ecologica piuttosto severi e controlli a tappeto. Questo sembrava confermare l’opinione comune che questa industria, conosciuta come “industria verde”, fosse amica dell’ambiente.
Lo studio era diviso in due parti. Nella prima ricostruivamo la struttura del settore dei servizi di smaltimento dei rifiuti solidi urbani nei quattro paesi europei principali (Germania, Regno Unito, Francia e Italia), il che ci dava lo sfondo su cui succedevano le cose. Nella seconda, tramite una serie di interviste a dirigenti, imprenditori e funzionari pubblici dei quattro paesi cercavamo di ricostruire le strategie delle imprese più grandi e delle loro associazioni di categoria. Nel fare questo, eravamo molto attenti a considerare entrambe le arene (le “scacchiere” del titolo) su cui le imprese si affrontavano, quella del mercato e quella del policy making. L’attenzione al dibattito sulle politiche ambientali era una caratteristica di tutto questo progetto, e non solo del nostro saggio: in quegli anni, dopo un’iniziale “linea dura” ambientalista che non aveva dato grandi risultati (il caso più clamoroso fu il fallimento della direttiva sulla Carbon Tax europea alla fine degli anni 80), la Commissione aveva deciso di adottare un atteggiamento più morbido nei confronti dell’industria, coinvolgendone i tecnici di punta nell’elaborazione delle politiche ambientali. Naturalmente questo esponeva i policy makers europei al rischio di “cattura” delle loro attività di regolamentazione da parte di imprese meglio informate e più aggressive; la Commissione ne era ben conscia, e di conseguenza seguiva il nostro lavoro con una certa attenzione.
Nel settore dei servizi pubblici ambientali, come negli altri presi in considerazione dai nostri colleghi, le grandi imprese (i due giganti multiutility francesi, Genérale des Eaux, oggi Vivendi, e Lyonnaise des Eaux, oggi Suez, e l’americana Waste Management, leader mondiale del settore) erano praticamente le uniche a partecipare al dibattito politico. Nonostante diversi scandali avessero minato seriamente la reputazione di alcune di queste (in Italia, Legambiente aveva addirittura lanciato una campagna contro Waste Management), queste imprese non solo non si opposero ad un regime di sanzioni abbastanza severe contro i reati di inquinamento, ma reclamavano controlli a tappeto più severi. Inoltre (ma questa non era una sorpresa) premevano per imporre standard tecnici sempre più severi, che giustificassero il ricorso a tecniche costose e molto capital intensive: inceneritori e riciclaggio piuttosto che discariche.
La situazione confermava un risultato molto noto in teoria dei giochi: se due o più giocatori giocano contemporaneamente due giochi, il livello di analisi appropriato è il “metagioco” costituito da entrambi i giochi. Le imprese cosiddette verdi giocavano appunto due giochi: uno era “il gioco della policy”, in cui sedevano ai tavoli di concertazione delle politiche ambientali e cercavano di ottenere misure vantaggiose per la propria posizione competitiva; l’altro era “il gioco della concorrenza”, in cui operavano sul mercato con l’obiettivo di sconfiggere la concorrenza e realizzare profitti. La strategia “ambientalista” delle grandi imprese sui controlli nel “gioco della policy” era dovuta al fatto che si rendevano conto che un controllo a maglie larghe (tipico, per esempio, della situazione italiana) avrebbe consentito a piccoli operatori con pochi costi sunk e bassa tecnologia di operare ai limiti della legalità, ma a costi fortemente competitivi rispetto a imprese multinazionali molto visibili e continuamente contestate dalle comunità locali che si opponevano alla localizzazione di grandi impianti di trattamento dei rifiuti nel loro territorio. La combinazione di standard tecnologicamente elevati e “tolleranza zero” nel controllo, invece, avrebbe permesso ai grandi operatori di spazzare via i piccoli concorrenti nel “gioco della concorrenza”, appropriandosi della notevole quota di mercato che questi ultimi presidiavano all’epoca. Naturalmente, questa soluzione non coincideva necessariamente con l’ottimo sociale.
Lo studio pronosticava un processo di concentrazione nel settore europeo dei servizi di smaltimento dei rifiuti. Il caso italiano era di particolare interesse, perché nessuna impresa del nostro paese sembrava in grado di reggere la concorrenza (di fatto, l’Italia era ed è un importante mercato per Waste Management). Le uniche dotate del necessario know how tecnico erano le aziende municipalizzate più avanzate, e in particolare quelle emiliane e lombarde; ma la natura della loro mission rendeva loro difficile impostare una strategia di crescita che consentisse loro lo sfruttamento di economie di scala tecniche, la cui importanza nel settore stava crescendo. Questo portò il nostro gruppo ad avanzare una proposta di cooperazione tra le municipalizzate ambientali dell’Emilia, per dare vita a una holding operativa multiutility: un modo per tenere in Italia una significativa presenza dell’industria “verde”. Sebastiano e io scrivemmo insieme un articolo per argomentare la proposta, che fu pubblicato su Politica ed Economia, e tentammo di convincere qualche amministratore a farsi campione di questa idea. Fino alla metà degli anni 90 lavorammo in questa direzione, coinvolgendo anche i colleghi dell’Istituto di Economia delle Fonti di Energia dell’Università Bocconi (IEFE). Questa linea di lavoro si sviluppò lungo diversi studi; particolarmente importante fu una consulenza commissionata a Bastiano dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, perché ci portò ad usare per la prima volta il concetto, caro all’autorità, di “gruppo strategico”. Questo ci permise di individuare con una certa precisione un gruppo di imprese che avrebbero potuto appoggiare un progetto di riforma del settore.
Tutto ciò, però, rimase accademia: l’idea era evidentemente buona, e infatti le grandi municipalizzate del nord si sono trasformate in spa e quotate in borsa e stanno cominciando a fondersi tra loro. Questo, però, avvenne più tardi, senza che il nostro gruppo vi giocasse alcun ruolo.

“I consumatori domandano beni a basso impatto ambientale, e costringeranno le imprese a produrli”
Nei primi anni 90 l’industria dell’imballaggio era al centro dell’attenzione degli ambientalisti e degli economisti dell’ambiente. Il packaging aumentava in proporzione al prodotto, ed era (ed è) responsabile di una parte rilevante dell’aumento della quantità complessiva di rifiuti urbani. Nel 1992 il ministro dell’ambiente tedesco aveva promulgato una legge innovativa in cui obbligava gli industriali tedeschi a raggiungere in qualche modo dei target aggregati di riciclaggio dei rifiuti da imballaggio o, in alternativa, a raccogliere tutti gli imballaggi dei loro prodotti dopo l’utilizzo. Le imprese tedesche avevano dato vita ad un consorzio che raccoglieva una specie di tassa su ogni confezione prodotta e usava il ricavato per finanziare progetti che aumentassero il rasso di riciclaggio. Siccome questa regola valeva anche per le imprese non tedesche, che naturalmente non partecipavano agli organismi dirigenti del consorzio, essa venne accusata (in parte a ragione) di essere una barriera non tariffaria alle importazioni. Gli ambientalisti, da parte loro, sostenevano con decisione la linea tedesca e facevano notare che essa era in linea con il credo dell’economia ambientale: prezzare le esternalità e, per questa via, fornire all’industria gli incentivi per ridurle. L’Europa si mise immediatamente a studiare una direttiva packaging. In questo scenario era ovvio che il progetto ERIC contenesse uno studio di caso sugli imballaggi.
In una fase abbastanza preliminare della ricerca ci imbattemmo in una serie di concorsi indotti dalle associazioni di categoria (uno in Italia, uno in Francia, uno in Germania, due nel Regno Unito, uno a livello europeo), più una a livello) che ogni anno premiavano le confezioni più innovative. Alcune di esse venivano premiate per l’elevata compatibilità ambientale. Inserimmo in un database le caratteristiche dell’impresa innovatrice (compresa la sua posizione nella filiera) e le motivazioni per il premio di circa 1400 imballaggi innovativi e stimammo un modello logit multinomiale su una variabile il cui significato era “decidere di realizzare un’imballaggio innovativo dal punto di vista ambientale condizionale alla decisione di realizzare comunque un imballaggio innovativo”.
Dal punto di vista teorico stavamo combinando il concetto di “traiettoria tecnologica” proposto da Giovanni Dosi (direzione in cui un dato prodotto, o “paradigma tecnologico” si muove con innovazioni incrementali) con i modelli di David Ulph di concorrenza in un mercato differenziato in più dimensioni. Dal punto di vista dell’interpretazione dei dati, la nostra idea era che i consumatori, con la loro accresciuta sensibilità ambientale, stessero domandando imballaggi più “verdi”; questo era in linea con i sondaggi che circolavano e, ancora di più, con lo spirito del tempo. Ci aspettavamo quindi che le industrie produttrici di beni di consumo facessero in proporzione più innovazione ambientale di quelle che producevano beni di investimento. Ci aspettavamo anche che le grandi imprese, più interessate a mantenere un profilo alto nei confronti dell’opinione pubblica, fossero in proporzione più attive di quelle piccole in questo campo.
L’analisi dei risultati della stima suggerì che avevamo torto: il profilo dell’innovatore ambientale tipico era sostanzialmente identico a quello dell’innovatore tout court. Le imprese che inventavano nuovi imballaggi avevano semplicemente messo l’innovazione ambientale tra le traiettorie tecnologiche lungo le quali si muovevano. In questo senso, l’effetto della regolamentazione ambientale era stato di focusing device: come la crisi petrolifera degli anni 70 per il risparmio energetico aveva messo l’ambiente nelle agende delle imprese. Questa era l’interpretazione benevola: quella malevola era che i produttori di imballaggi si erano impegnati in un’operazione di window dressing: cercavano di risparmiare materie prime come avevano sempre fatto, riducendo lo spessore delle lattine d’alluminio e introducendo detersivi “compatti”, chiamavano il tutto lightweighting e lo presentavano come una riduzione dell’impatto ambientale della confezione. La riduzione dell’impatto ambientale, naturalmente, c’era davvero, ma era molto difficile, sulla base dei nostri dati, sostenere che ci fosse stata innovazione aggiuntiva sull’ambiente come conseguenza dell’ondata di regolamentazione degli anni 80. La tipica innovazione ambientale era no regret: riduco le dimensioni della confezione, e quindi i costi di materie prime e di trasporto, e anche l’impatto ambientale. Se i consumatori stavano segnalando che erano disposti a pagare di più per un prodotto più “verde”, era evidente che l’industria non prendeva quei segnali sul serio. E con questo anche il consumo consapevole era sistemato.

“L’industria dei servizi ambientali creerà nuovi posti di lavoro, contribuendo a ridurre la disoccupazione”
Il concetto di doppio dividendo è estremamente importante nei corsi universitari di economia dell’ambiente, e fu forse quello che più di ogni altro contribuì ai successi della disciplina nel mondo politico negli anni 80. L’idea è ben nota: applicando una imposta su una esternalità ambientale non solo si corregge la distorsione derivante dall’eccessivo consumo sociale della risorsa naturale che si intende proteggere, ma si aumenta anche il gettito fiscale. Questo apre uno spazio per una manovra ecofiscale di bilancio in pareggio, in cui l’aumento del gettito dovuto all’imposizione dell’ecotassa viene compensato da una diminuzione dell’imposta sul reddito. Questo, si ragionava, abbassa i costi politici della fiscalità sull’ambiente, e aumenta dunque la sua efficacia operativa. In più; riduce, i costi impliciti dovuti alle distorsioni sul sistema dei prezzi causati dalla tassazione. Lo slogan del tempo era “tassare i mali ambientali invece dei beni economici”.
Nell’Europa degli anni 90, che aveva lanciato con il Libro bianco di Delors la parola d’ordine della lotta alla disoccupazione come obiettivo prioritario dell’Unione, circolava una versione del doppio dividendo declinata in termini di occupazione. L’idea era che il policy maker europeo potesse incassare due benefici, quello di una migliore qualità ambientale e quello di un maggiore tasso di occupazione, con il solo strumento della politica ambientale. Nel 1994 il gruppo di ricerca di ERIC venne incaricato di esplorare questa idea (il progetto fu battezzato JEP, Jobs and Environmental Policy): a Eco&Eco fu chiesto di costruire uno studio sul caso del settore della gestione dei rifiuti solidi urbani.
Affrontammo il problema con una tecnica tradizionale per un economista industriale cresciuto nella tradizione di Bastiano, e al tempo anche piuttosto fuori moda: le stime ingegneristiche. Si trattava di individuare delle opzioni alternative in termini di obiettivi (per esempio: riciclare almeno il 70% del vetro e il 30% della carta, oppure bruciare tutto per recuperare energia termica dai rifiuti, oppure ancora mettere tutto in discarica), e stimarne e costi e inputs unitari di lavoro. Questo significava, naturalmente, cercare la collaborazione degli ingegneri per capire davvero la tecnologia. Già per definire le opzioni occorre tenere conto degli effetti di complementarità/sostituibilità che caratterizzano le tecniche produttive del settore: per esempio, riciclare la carta e la plastica diminuisce il potere calorifico dei rifiuti, e quindi va a detrimento della possibilità di recuperare energia bruciandoli. In più, le opzioni dipendono dalla composiizione percentuale dei rifiuti, dal modello di insediamento (nelle città sviluppate in verticale, con palazzi a molti piani, la raccolta porta a porta ha più senso economico che non nei sobborghi sviluppati in orizzontale o nei piccoli paesi), e perfino da fattori climatici (in Europa meridionale la raccolta dei rifiuti deve essere più frequente che in quella settentrionale per evitare problemi igienici nei mesi estivi). Furono mesi di immersione totale nella tecnologia di smaltimento, in cui arrivammo a conoscere i forni per l’incenerimento e gli autocompattatori dei rifiuti come, immagino, Bastiano deve avere conosciuto le presse ceramiche o i telai jacquard.
Costruimmo tre modelli per ciascuno dei quattro principali paesi europei (Germania, Francia, Regno Unito, Italia). Uno definiva un baseline state, una situazione in cui la normativa nazionale è rispettata ma niente di più. Gli altri due erano “opzioni verdi” una a maggiore intensità di lavoro (nel senso che contempla un ambizioso schema di riciclaggio e la messa in discarica della frazione indifferenziata residuale) l'altra prevede a maggiore intensità di capitale (come la precedente ma con la frazione indifferenziata incenerita con recupero energetico). A partire da qui, utilizzammo il metodo, caro all’economia dell’ambiente, del’analisi costi-benefici. I risultati furono ancora una volta abbastanza chiari. Passare dalla baseline alle opzioni verdi aumentava, sì, l’occupazione. Ma naturalmente aumentava anche i costi del servizio. Ipotizzando una manovra di bilancio in pareggio, questo avrebbe comportato una riduzione di occupazione da qualche altra parte nell’economia. L’effetto netto sull’occupazione dipendeva naturalmente dall’entità relativa dell’intensità di lavoro della gestione dei rifiuti rispetto a quella media dell’economia: trovammo che per tre paesi su quattro questo effetto sarebbe stato negativo: ambiente più pulito, quindi, ma meno posti di lavoro. Così, anche il doppio dividendo, nella sua versione occupazionale, si rivelava essere un esercizio di wishful thinking.

Conclusione: esiste l’economia dell’ambiente?
Negli anni dal 1992 al 1998 si è costituito e sviluppato un gruppo di “economia industriale dell’ambiente” nell’ambito di Eco&Eco e guidato direttamente da Bastiano. Questo gruppo è riuscito per qualche tempo a prendere posizione nel dibattito nazionale ed europeo su alcuni temi politicamente rilevanti, soprattutto quello dell’industria “verde” legata allo smaltimento dei rifiuti. In questo periodo abbiamo parlato molto poco di economia dell’ambiente, e in nessun caso abbiamo dovuto fare ricorso a pezzi di teoria economica che non facessero parte dell’arsenale standard dell’economista industriale. Nello studiare gli imballaggi usavamo le teorie dell’innovazione, sia quelle di stampo “evolutivo” à la Dosi sia quelle imperniate sulla teoria dei giochi; per verificare l’esistenza del doppio dividendo ci servivamo delle stime ingegneristiche, come già faceva Bastiano quando lavorava per la FIOM negli anni 70; nell’analizzare i comportamenti dell’industria verde usavamo di nuovo la teoria dei giochi. Non ricordo che una sola volta qualcuno dei nostri colleghi, in Italia o all’estero, abbia protestato per questo, o semplicemente abbia usato i concetti che si insegnavano allora nei corsi di economia ambientale per trarre conclusioni migliori o più pertinenti delle nostre. Naturalmente i nostri studi non negavano quei concetti; piuttosto, esistevano su un piano del tutto diverso da essi. Ci sembrava che l’economia del benessere, di cui la teoria della politica ambientale à la Baumol e Oates è diretta emanazione, semplicemente non fosse rilevante per studiare i problemi concreti di politica ambientale. Si potrebbe dire che negli anni 90 l’economia dell’ambiente era epistemologicamente molto debole: non escludeva abbastanza stati del mondo per spiegarci cosa fosse meglio fare. Quindi dal punto di vista teorico concluderei che no, l’economia dell’ambiente non esiste, o almeno non esisteva allora.
Eppure l’economia ambientale esisteva nel sentire di molti decisori e opinion makers di quegli anni. Molte delle commesse affidateci servivano ad esplorare le “opportunità” che la questione ambientale sembrava porre all’umanità. Era assai diffusa l’idea che ci fosse stata una discontinuità, e che i nuovi tempi richiedessero nuove parole d’ordine, nuovi strumenti di intervento. Questa corrente di pensiero era talmente seducente che politici avvertiti e dirigenti di indubbia intelligenza dichiaravano tranquillamente che “l’ambiente non era un vincolo, ma una risorsa” senza specificare per chi, nè a quali condizioni; il tutto sulla base di una quantità sorprendentemente ridotta di conferme empiriche. Rileggendo gli scritti del tempo (compresi i miei), non si trovano prove ma esempi. Una fabbrica di detersivi a bassissimo impatto ambientale in Belgio viene trattata non come un produttore di nicchia in un mercato diversificato, ma come un araldo di tempi nuovi; una riuscita protesta di alcuni gruppi ambientalisti contro una catena di supermercati inglese diventa un segnale di un consumo che “inevitabilmente” si farà sempre più consapevole. E a partire da questi esempi si costruivano teorie. In questo senso l’economia dell’ambiente esisteva, e come: era la concrezione scientifica di un’ideologia piuttosto forte.
In questo contesto Sebastiano Brusco, uomo di sinistra e ambientalista quanto chiunque di noi, ebbe il merito di rimanere lucido, e di ricordare a noi che lavoravamo con lui e ai lettori dei nostri rapporti di ricerca che “for example is not a proof”, e che “there is no such thing as a free lunch”. E che quindi nessuno avrebbe regalato niente a nessuno; alla fine della strada, il policy maker dei nostri libri di testo avrebbe dovuto scegliere: profitto o disinquinamento, competitività internazionale o aria pulita, occupazione o riciclaggio. E non era probabile che la scelta sarebbe stata indolore. Non mi occupo più di economia dell’ambiente, ma scommetto che questo non è cambiato.
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Versione 2.0 del 14 novembre 2003

[Ultimo aggiornamento: 10/09/2012 10:19:13]